L’ordine regna intorno a me.
La casa è pulita.
Ho svuotato la dispensa, gettato farine piene di farfalline, biscotti scaduti, conserve ammuffite.
Poi ho attaccato l’armadio, fatto sacchi di vestiti vecchi, mucchi di “questi li metto quando dimagrisco”, montagne di “prima o poi questo torna di moda”.
Ho lavato il terrazzo, estirpato erbacce.
Buttato vecchi giocattoli di Davide, messo da parte libri per bambini piccoli da donare a qualche associazione.
Poi è toccato al freezer: gettato scatole di surgelati pronte al suicidio, cucinato verdure incancrenite e pezzi di carne più vecchi della mummia Juanita.
Ho concluso con il bagno.
Fatto sparire decine di flaconcini di creme e cremine aperte dal cretaceo: in alcune gli strati d’olio e materia chimica erano così perfettamente separati e sedimentati da poterne calcolare l’età col carbonio 14. O qualcosa del genere.
Ho gettato mozziconi di matite per occhi, smalti secchi, bustine di campioncini aperti, elastici aggrovigliati in capelli lunghissimi che non porto più da anni, mollette arrugginite, ombretti ridotti a polvere del Sahara.
Ho buttato tutti i medicinali scaduti e fatto una lista per i “must-have” da tenere in casa.
Tremo al pensiero di affrontare la cantina, un reliquiario peggo di alcune cripte paleocristiane,in cui giacciono ancora scatoloni dimenticati dal trasloco di quattro anni fa, ma giuro che prima o poi tocca anche a quella.
E non è finita.
Un po’ di sana pulizia è toccata anche al blog, insieme ad una nuova maschera, una copertina allegra, dietro la quale possono celarsi inquietudini e qualche dolore.
Alla faccia del declutterting.
Applico questa operazione di pulizia esteriore ciclicamente; la necessità di ordine apparente è direttamente proporzionale al disordine interiore, e non ci voleva certo una guru giapponese per scoprire questa ovvietà.
Ricordo almeno una decina di frigoriferi sbrinati e altrettanti vetri lavati e tende smontate insieme a mio marito dopo ogni litigata importante.
Una parvenza di ordine intorno a me dovrebbe aiutare il caos dentro di me – che per il momento non genera alcuna stella danzante – a darsi almeno una forma conosciuta.
E a dirla tutta, prima di attaccare il mio appartamento, ho pensato a me stessa.
Da circa sei mesi a questa parte ho iniziato a truccarmi tutti i giorni.
Cosa che non ho mai fatto in vita mia, non saprei dire perché.
Ho sempre dato la colpa alla pigrizia di struccarmi la sera.
E forse giocava un ruolo determinante l’età, e una certa sicumera che mi rendevano impermeabile alle critiche e al passare del tempo.
Ma, ad un certo punto, truccarmi è diventato più di un vezzo; è stato scoprire il trucco e l’inganno, affilare le armi della finzione per distogliere lo spettatore dal gesto rapido che fa sparire la regina di cuori nella manica del prestigiatore.
A differenza del decluttering casalingo però, che in genere è un’azione abbastanza irreversibile (so già che quei dannati pantaloni a zampa torneranno di moda tra un mese!) il trucco la sera scivola via, restituendomi a me stessa, almeno una volta al giorno.
Struccarmi è diventato un gesto quotidiano, la coccola in cui torno a riappropriarmi del mio volto, lasciando andare giù per lo scarico quello posticcio che mi sono portata a spasso per tutto il giorno.
Una liberazione.
Come rientrare a casa la sera e levarsi il reggiseno, o un paio di scarpe col tacco troppo alto.
Davide quando mi vede truccarmi dice che sono bella.
Qualche giorno fa l’ho visto spennellarsi le guance con ardore con il mio blush color pesca “Così mi viene la faccia rosa come i miei compagni mamma, non voglio essere marrone”.
Trucco e inganno alla Micheal Jackson, all’alba dei cinque anni.
Pelle nera, maschere bianche.
Lo avete mai letto? Franz Fanon analizza in maniera straordinaria il gap tra la percezione di sé e quella degli altri, più che mai evidente quando di mezzo c’è il colore della pelle.
Davide comincia già a viverlo su di sé.
Io ci ho messo 36 anni.
Ho imparato il trucco del make up, per calarmi in un’altra me.
Come se bastasse una riga di matita a nascondere la verità di uno sguardo.
O una pennellata di blush a cancellare le tue origini.
Davide detesta burattini, pupazzi e clown. La chiamano pediofobia, il terrore delle maschere.
Ma roba da scenate isteriche in mezzo alla strada se intravede un Topolino che chiede soldi per strada, terrore puro.
Forse ha intuito la natura più profonda di quello che vi si cela dietro, il pericolo potenziale di un qualcosa di nascosto che si svela all’improvviso.
Crescerà, ed imparerà a gestire le sue paure.
Io invece devo ancora capire come dosare menzogna e verità, quando tenere su la maschera e quando invece svelare le mie paure, le mie ossessioni, me.
Imparerò di nuovo ad indossare i miei panni, senza trucco, senza inganni.
Per adesso mi occupo dell’involucro, per andare a fondo ci vuole il suo tempo.
Casa ordinata, riga perfetta sugli occhi e nuova veste grafica.
E si riparte da qui.